sabato 15 aprile 2017

A casa nostra (Lucas Belvaux 2017)


Pauline, trentaseienne separata con due figli, lavora come infermiera a domicilio in una cittadina nel nord della Francia. La sua vita scorre serena e senza particolari scossoni, finché un giorno l'anziano medico di famiglia, il dottor Berthier, molto attivo nella vita politica locale, le propone di candidarsi alle elezioni comunali per un giovane partito "né di destra né di sinistra" a forte connotazione nazionalistica. Lusingata e spiazzata in ugual misura, Pauline non comprende perché per portare avanti quel profondo rinnovamento della società auspicato da Berthier e dal suo movimento abbiano pensato a una come lei, poco abile nelle public relations e assolutamente digiuna di politica nonostante un padre agguerrito sindacalista metalmeccanico. Se tuttavia in un primo momento rifiuta energicamente qualsiasi coinvolgimento, man mano prende coscienza dell'opportunità che quella candidatura potrebbe rappresentare, sia per lei stessa, sempre più frustrata da un lavoro che le dà grandi soddisfazioni sul piano umano ma scarsa sicurezza economica, sia per i suoi concittadini, al cui malcontento la sua professione la espone quotidianamente.

Conquistata dall'ottimismo velleitario di Berthier, Pauline finisce per accettare di mettere la faccia sui manifesti del partito accanto a quella della capolista Agnès Dorgelle, una bionda di mezza età dallo strabordante carisma, complici anche la ritrovata intesa sentimentale con Stéphane, un ex compagno di scuola di ultradestra noto ai commilitoni con il nome da combattimento di "Stanko", e il contagioso entusiasmo patriottico dell'amica Nathalie, che promette di supportarla nella gestione dei figli e del tempo libero. Ma Pauline è troppo sprovveduta per capire cosa comporti realmente fare attività politica tra le fila di un partito che dietro un'apparenza di democrazia e legalità nasconde un'anima oltranzista e xenofoba. Ben presto si renderà conto di aver incautamente consegnato le chiavi della sua vita privata al partito e di essere diventata una pedina nelle mani di persone con le quali non ha in comune nulla di più di un generico fervore ideologico di matrice populista.

sabato 8 aprile 2017

Victoria (Sebastian Schipper 2015)


Di solito cerco di arrivare al cinema ignaro di quello che mi aspetta. Trailer non ne guardo da anni, non soltanto perché generalmente contengono vistose anticipazioni, ma anche perché tendono a dare un'idea abbastanza precisa dell'atmosfera, dei colori, del genere e del tono del film, creando un pregiudizio che inevitabilmente va ad alterare l'esperienza della visione. Purtroppo è diventato sempre più difficile tenersene alla larga, visto il bombardamento pubblicitario cui si è sottoposti prima di ogni spettacolo, specialmente nelle multisale, dove ormai bisogna mettere in conto uno slittamento di tre quarti d'ora rispetto all'orario di inizio. Di recente mi è capitato addirittura di imbattermi nel trailer del film che mi accingevo a vedere, caso eclatante di overselling di un prodotto (anche se c'era poco da spoilerare: il film in questione era il deplorevole John Wick 2). A costo di sembrare lo squinternato della poltrona accanto, ciò che faccio "normalmente" in questi casi è adottare la posizione fetale, detta anche atterraggio di emergenza o porcellino di terra, sforzandomi di pensare ai pappagalli verdi della Papuasia, o in alternativa cerco di sviare l'attenzione dei miei corruttibilissimi neuroni subissando i miei compagni di visione con un flusso ininterrotto di informazioni su un argomento qualsiasi.

In condizioni ideali, bisognerebbe avvicinarsi a un film senza sapere se sia in bianco o nero o a colori, chi sia il regista e che esperienza abbia alle spalle, e possibilmente ignorando il titolo. Follia? In qualche rara occasione il cinema Classico torinese (già Empire, per chi se lo ricorda) ha avuto il coraggio di proporre film "al buio", ma di certo non è una strategia applicabile su larga scala. Come orientarsi allora nella scelta dei film da vedere? L'unico modo, secondo me, è andare a sensazione o a simpatia, allo stesso modo in cui si approccia una persona sconosciuta in metropolitana. Il rischio è quello di non restare al passo con le uscite imprescindibili della stagione, ma la contropartita è vivere il cinema non alla stregua di un evento culturale o di una distrazione, ma come una specie di avventura.

sabato 1 aprile 2017

La cura dal benessere (Gore Verbinski 2016)


Alla vigilia di un'importante fusione societaria il neo promosso manager Lockhart viene incaricato di recarsi presso un sanatorio sulle Alpi svizzere dove il signor Pembroke, l'amministratore delegato della società finanziaria per cui lavora, è ricoverato già da diverso tempo. Le condizioni di salute dell'anziano CEO non sono note, ma a giudicare da una lettera autografa ricevuta qualche giorno prima sembra aver smarrito il senno, cosa che desta viva preoccupazione nelle alte sfere dirigenziali dal momento che una sua assunzione di responsabilità in relazione a passate malversazioni sarebbe fondamentale per la buona riuscita dell'operazione. Durante la riunione del consiglio di amministrazione tuttavia Lockhart esprime qualche perplessità sull'opportunità di intraprendere un simile viaggio, vista la sua scarsa familiarità con il capo supremo, ma una dirigente particolarmente velenosa gli fornisce quella che in sceneggiatura viene chiamata motivazione: «Signor Lockhart, si è mai ritrovato un bastone nero di trenta centimetri su per il culo? PRIGIONE, mio caro!» L'argomentazione è ineccepibile e Lockhart zompa prima di subito sul primo aereo per la Svizzera.

Molti pregi e difetti de La cura dal benessere sono già contenuti in questa scena iniziale. La riunione si svolge ai piani alti di un grattacielo di New York, ma non è la New York che conosciamo, formicolante di vita e di colori, sembra piuttosto un conglomerato irriconoscibile di vetro e cemento immerso in un'atmosfera plumbea, dove gli unici segnali di vita sono i neon spettrali che illuminano gli uffici semideserti. Le inquadrature, mai banali e spesso portatrici di significato, non fanno che accrescere il senso di inquietudine, rimarcando l'estraneità dell'uomo rispetto a una trappola architettonica di cui egli stesso è artefice. Ritroviamo la stessa cura compositiva e lo stesso gusto per l'astrazione nella parte ambientata in Svizzera, dove le scene memorabili non si contano: il talento visionario di Verbinski ci regala lo spettacolo incredibile del massiccio alpino che si specchia sulla superficie lucente di un treno in corsa, per poi portarci lungo tornanti mozzafiato costeggiati da alberi sempreverdi, su fino al maestoso sanatorio che domina la vallata. L'inquietudine non fa che aumentare quando la macchina da presa penetra nei meandri del sinistro edificio, affidando alla superficie convessa dell'occhio di un cervo imbalsamato il compito di prefigurare l'orrore che verrà. Sono immagini evocative e bellissime che già da sole giustificano una visione.