sabato 28 ottobre 2017

120 battiti al minuto (Robin Campillo, 2017)


Sovraccarico di energia e insieme profondamente lirico, 120 battiti al minuto racconta senza reticenze e con autentica passione la storia del movimento Act Up Paris, costola francese dell'omonimo movimento newyorchese impegnato fin dagli anni anni Ottanta nella lotta per i diritti dei malati di AIDS e per la costruzione di una maggiore consapevolezza intorno al virus dell'HIV e a quella che una volta era chiamata "la malattia degli omosessuali e dei tossicodipendenti", definizione che oggi sappiamo essere falsa e fuorviante. In particolare il regista Robin Campillo segue da vicino la vicenda (fittizia) di Nathan, giovane omosessuale francese interpretato dal taurino Arnaud Valois che nel movimento trova non soltanto l'occasione di sostenere attivamente una causa in cui crede, ma anche un'opportunità di crescita personale e, non da ultimo, l'amore.

La prima scena ci catapulta fin da subito nel vivo dell'azione, dietro le quinte di un blando programma televisivo dedicato all'AIDS che i membri di Act Up hanno eletto a vetrina per sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'impossibilità per i malati di accedere a medicinali e terapie sperimentali. L'azione di boicottaggio, rapida e di forte impatto emotivo, prevede l'interruzione a sorpresa del programma e l'enunciazione di slogan di denuncia nei confronti delle case farmaceutiche, ma subisce un'escalation quando uno degli attivisti prende l'iniziativa di lanciare un palloncino pieno di sangue finto in faccia al moderatore del programma. Se fino a quel momento gli astanti si erano limitati a esibire un sorriso paternalistico nell'attesa che la trasmissione riprendesse con la normale scaletta, la vista di sangue potenzialmente infetto genera un'ondata di panico: la protesta si conclude con l'intervento della polizia, che trascina via i manifestanti nell'indignazione generale.

L'esito di questa sortita sarà poi oggetto di un animato meeting nei quartieri dell'organizzazione, nel corso del quale apprenderemo alcune delle regole fondamentali su cui essa si fonda: al fine di non sovrastare il dibattito è vietato applaudire per esprimere approvazione, mentre è consentito (regola aurea che adotterei in molte sedi istituzionali nostrane) schioccare le dita; gli interventi di ciascun membro devono essere il più concisi possibile, vista l'urgenza delle istanze affrontate; chi entra nel gruppo accetta di essere identificato pubblicamente come sieropositivo, anche quando ciò non corrisponda a verità, come nel caso di Nathan; è vietato inoltre opporre qualsiasi resistenza all'arresto, in linea con l'impostazione non violenta dell'organizzazione. Molti dei partecipanti sono omosessuali, ma la platea a ben vedere è molto più variegata: ad esempio troviamo, tra gli altri, una madre single sieropositiva accompagnata dal figlio quindicenne emofiliaco, controesempio vivente di chi vorrebbe l'AIDS come una specie di castigo per condotta sessuale deviata («non c'è nulla di più punitivo che attribuire alla malattia un significato», osservava Susan Sontag). Tra gli attivisti più agguerriti ci sono Sophie, vera anima ribelle del gruppo; Thibault, leader spregiudicato fin troppo attento all'immagine e all'opinione pubblica; ma soprattutto l'istrionico Sean, una candela che brucia da due parti, con il quale il neofita Nathan inizierà un'appassionata relazione.


Tra gli scopi principali di Act Up, ben rappresentato dallo slogan "Silence = Death" preso in prestito dall'artista Keith Haring, c'è la diffusione dell'unico contagio vitale, la consapevolezza. Anticipando di molto i tempi, gli attivisti interrompono le lezioni nelle scuole, distribuiscono volantini e preservativi e informano gli studenti dei rischi derivanti dal sesso non protetto, nello sforzo di colmare il vuoto educativo lasciato dalle istituzioni. In una scena particolarmente riuscita, l'insegnante illuminata di una scuola superiore accoglie di buon grado l'irruzione degli attivisti di Act Up invitando gli studenti a prestare la massima attenzione, ma il suo convinto progressismo non le impedisce di contrarre il volto in una smorfia di disgusto quando uno dei manifestanti si profonde nella descrizione dei rischi derivanti dall'ingestione di sperma. Non c'è da scandalizzarsi perché "c'est la vie", come recita uno dei manifesti distribuiti dal gruppo su cui campeggia in primo piano un enorme membro in erezione. Non si tratta di mera provocazione, al contrario: è solo entrando nei dettagli delle singole pratiche sessuali, con lo scambio di fluidi che ne consegue, che si può sperare di salvare la vita delle persone, e se oggi tutto questo suona come un'ovvietà lo dobbiamo soprattutto a gruppi come Act Up Paris.

Ma la lotta non è soltanto quella del movimento contro i pregiudizi e l'omertà della politica, è anche la rivolta silenziosa e invisibile del corpo contro se stesso, la guerra microscopica della cellula contro la cellula, sebbene lo sfavillio delle luci stroboscopiche dia l'illusione di un'impossibile tregua, quasi che i battiti del cuore non dovessero mai finire. E invece sono proprio i battiti a scandire la progressione inarrestabile della malattia, a trasformare la battaglia in una corsa disperata contro il tempo in cui anche un trascurabile progresso farmacologico può equivalere a qualche giorno, forse qualche settimana, di vita. Un commercio iniquo, spietato, dove le grandezze in gioco sono incommensurabili: da una parte gli interessi economici delle grandi case farmaceutiche e la lentezza colpevole della politica nel recepire la portata di un'epidemia epocale, dall'altra le esistenze precarie di migliaia di persone decimate da un male ancora in gran parte sconosciuto e costrette a fare da cavie nella speranza di un'improbabile guarigione. Che la politica sia legata a filo doppio con la vita delle persone è cosa risaputa, ma difficilmente si potrà trovarne evidenza più schiacciante.


Ogni progresso richiede un tributo di sangue, e nel caso dell'AIDS a farne le spese è stata la generazione che lo ha contratto tra gli anni Ottanta e primi anni Novanta, quando dell'HIV si sapeva poco o nulla e ancora non esistevano, o non venivano commercializzati a prezzi accessibili, farmaci efficaci in grado di tenere il virus sotto controllo. Che la nostra permanenza su questa terra possa dipendere da cause contingenti e storiche - un farmaco preso al momento giusto, una foto shock vista per caso su una rivista - è uno dei temi più squisitamente esistenziali affrontati da 120 battiti al minuto al di là del suo evidente significato politico. Perché proprio a me, è la domanda inespressa ma sempre presente che Sean e gli altri sembrano porsi, domanda la cui risposta rimane sospesa nel vuoto, perché è impossibile accettare come spiegazione un capriccio del destino, una mera convergenza di circostanze casuali, quando ad essere in gioco è la propria vita. Non ci sarà alcuna compensazione, alcun risarcimento possibile per tanta sofferenza: «o si è vivi o si è morti» è l'unica, inutile lezione che possiamo trarre da questa esperienza. Il film parla di tutto questo senza mai cadere nella commiserazione, anzi, gli spettatori inclini a facili romanticismi (nulla di male in questo) dovranno fare i conti con un'inaspettata e per quanto mi riguarda benvenuta sferzata di cinismo.

Nettamente diviso in due parti, il film comincia come avventura collettiva e scivola man mano su un piano più intimo e sommesso. Quando la politica ha fallito, la rabbia si è esaurita, e trovare l'energia per irrompere nelle scuole e manifestare ai gay pride diventa sempre più difficile, allora non resta che ritirarsi in se stessi cercando di rubare qua e là qualche effimero momento di felicità, magari proprio su quello stesso letto di ospedale al quale ormai si è incatenati. Rimane, a chi è stato concesso il lusso della sopravvivenza, la speranza che il sacrificio non sia stato vano, e che alle generazioni a venire, almeno a loro, sia risparmiata la stessa sorte. La storia, però, non segue un percorso lineare verso un futuro sempre più luminoso e progredito, e la consapevolezza non è un bene che si acquisisce una volta per tutte: ecco perché, in un'epoca come la nostra in cui si registra un preoccupante calo di attenzione verso il tema dell'AIDS, sia per la disponibilità sempre maggiore di terapie che permettono al malato una qualità della vita decorosa, sia per quella ciclicità congenita nella storia del genere umano che ad ogni emergenza fa seguire una fase di normalizzazione, 120 battiti al minuto si presenta come un necessario grido d'allarme, un brusco richiamo alla realtà per le nostre coscienze addormentate.

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